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IlFattoQuotidiano.it / Diritti
Molestie sul lavoro, “per il diritto conta il
punto di vista della vittima”. Ecco a chi rivolgersi per denunciare
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Molestie sul lavoro, “per il diritto conta il
punto di vista della vittima”. Ecco a chi rivolgersi per denunciare
"Le intenzioni
contano poco", spiega Marzia Barbera, ordinario di Diritto
antidiscriminatorio. Per avere giustizia nei casi più gravi si può fare
denuncia penale entro sei mesi dal fatto. L'altra strada è la causa civile per
chiedere l'allontanamento del responsabile e il risarcimento del danno. Le
consigliere di parità, se necessario, agiscono in giudizio per conto della
donna. E i sindacati possono avviare una vertenza con l'azienda
di Chiara Brusini | 23 novembre 2017
Più informazioni su: Diritti delle donne, Lavoro, Lavoro Femminile, Molestie Sessuali
Non è questione di punti di vista. E’ vero
che un complimento pesante
può essere uno scherzo innocuo o un’offesa che umilia, a seconda del punto di
vista. Per questo il tema delle molestie nei
luoghi di lavoro, su cui dopo il caso Weinstein hanno alzato il velo le campagne
social #quellavoltache e
#metoo, è considerato scivoloso. Ma, in un Paese in cui secondo l’Istat 9 donne su 100 hanno
subito molestie o ricatti sessuali nel corso della vita lavorativa,
il diritto una strada l’ha scelta. Ed è chiarissima. “Il punto di vista che
conta per valutare che cosa è molestia sessuale è quello della vittima“, spiega ailfattoquotidiano.it Marzia Barbera, ordinario di Diritto antidiscriminatorio all’università
ed ex consigliera nazionale di
parità. “Le intenzioni di chi la mette in atto contano poco”. I
codici di condotta delle grandi aziende si allineano a questa impostazione, pur
non prevedendo quasi mai figure neutrali a cui rivolgersi per segnalare i
comportamenti censurabili. Chi subisce molestie o violenze – e anche una
mano sulla coscia, come vedremo, può configurare una violenza – ha comunque
molte opzioni per chiedere giustizia. Può presentare denuncia penale, fare
causa civile per il risarcimento del danno ma anche rivolgersi al sindacato o
alla consigliera di parità della
sua provincia o Regione. Che è titolata ad agire in giudizio davanti al giudice del lavoro
per conto della vittima o in suo supporto.
Il Codice del 2006: non serve dolo perché
sia molestia – “In passato i giudici tendevano a cercare
un punto di vista oggettivo e il risultato era che il comportamento percepito
come molestia veniva derubricato come inoffensivo, scherzoso”, ricorda la
docente. “Poi due direttive europee, recepite nel Codice delle pari opportunità del
2006, hanno chiarito che la prospettiva doveva essere rovesciata.
Perché il diritto deve servire a proteggere
la vittima che non ha la forza o la possibilità di dire
no”. Per questo il Codice sancisce che sono molestie sessuali e costituiscono
una forma di discriminazione tutti
“quei comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di
violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un
clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo”.
Non occorre che ci sia dolo,
dunque: basta “l’effetto”.
Causa civile o vertenza sindacale se ci sono
prove – “Nei casi più gravi naturalmente si ricorre al diritto penale.
Ma quello antidiscriminatorio è molto efficace se si tratta di chiedere la
cessazione della molestia, l’allontanamento del
responsabile e il risarcimento“,
continua Barbera. La consigliera provinciale di parità (sono 106, nominate dal
ministero del Lavoro) è un pubblico ufficiale e può rivolgersi su delega
della vittima al giudice del
lavoro o al Tar o
intervenire in giudizio al suo fianco, “ad adiuvandum”. “Ma il ruolo delle
consigliere oggi è depotenziato perché non hanno fondi. Stando alla nostra
esperienza, il primo punto di riferimento è il sindacato”, dice Alessandra Menelao,
responsabile nazionale dei centri di ascolto contro le violenze della Uil. “Su 1000 persone che si
rivolgono ai nostri sportelli, 150 denunciano molestie sessuali sul luogo di
lavoro. In due casi su tre affrontiamo il problema aprendo una vertenza sindacale con
l’azienda. Però la vittima deve portarci delle prove (video, foto, messaggi
Whatsapp…). Noi facciamo delle verifiche con legali e psicologi e attiviamo una
procedura per arrivare al trasferimento o
all’azione disciplinare contro
il molestatore”. Un iter, spiega Menelao, che spesso le lavoratrici
preferiscono perché molto più breve rispetto
alla causa civile per
il risarcimento del danno e a quella penale. Punti di ascolto simili a quello
della Uil sono previsti da un accordo quadro del 2016 tra Confindustria e i
sindacati confederali, a cui hanno fatto seguito intese a livello locale. “In
Trentino, per esempio, Cgil, Cisl e Uil hanno aperto uno sportello unitario”.
Quando fare denuncia penale – Ma se le
prove non ci sono, perché il molestatore si è ben guardato dal mettere per
iscritto l’avance indesiderata o il ricatto sessuale, quella strada diventa
impraticabile. Non solo: “Se si sceglie la via stragiudiziale a volte è la
lavoratrice a dover andare via”, avverte Chiara Vannoni, avvocato giuslavorista e consigliera
di parità della città metropolitana di Milano. “Si pensi alle piccole aziende in cui magari
il molestatore è il datore di
lavoro. E’ quasi inevitabile che sia la lavoratrice a
rinunciare al posto, accettando un risarcimento“.
In questi casi può essere preferibile la denuncia penale. “Non occorre portare
prove, perché saranno il pm e la polizia giudiziaria a fare le indagini”,
spiega Vannoni.
Querela entro sei mesi. Perché ci sia
molestia non serve contatto fisico – Bisogna però tenere presente che il tempo
a disposizione è poco: il diritto di querela va esercitato entro tre mesi dalla
molestia ed entro sei mesi se
si è trattato di violenza sessuale. Il perimetro del penale, poi, è più
ristretto rispetto all’illecito civile. Ma, contrariamente a quanto si potrebbe
pensare, per denunciare non è necessario che ci sia stato un contatto fisico, tanto meno
un vero e proprio stupro. In base alla giurisprudenza di Cassazione, quando il colpevole
ha dolosamente usato
“espressioni volgari a
sfondo sessuale” o ha messo in atto un “corteggiamento invasivo
ed insistito” si applica la pena prevista dal codice per le molestie semplici:
fino a sei mesi di carcere.
Si configura invece la violenza sessuale, punita con
un massimo di 10 anni di
prigione, quando qualcuno viene costretto a un atto sessuale
usando la violenza o minacce oppure abusando della propria autorità o della sua
“inferiorità fisica
o psichica”. Situazioni frequenti nei posti di lavoro, quando il colpevole è il
capo o una persona di grado superiore alla vittima. Fondamentale tenere
presente che un “atto sessuale” non è necessariamente un rapporto
completo: ricade nella definizione anche il gesto di appoggiare una mano su una
zona erogena – e secondo diverse sentenze lo sono anche la coscia o il ginocchio – o dare un bacio
sulle labbra contro il volere di chi lo riceve.
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